Pietro Germi non è stato considerato e stimato come altri registi del periodo d’oro del cinema italiano, soprattutto finchè era in vita.
Nel documentario dello scorso post si sostiene (e lo sostiene un grande maestro come Monicelli) che la critica più forte, quella di sinistra, non aveva in simpatia Germi perchè gli operai e “gli umili” dei suoi film non erano esempi di specchiata moralità o persone eccezionali.
Prendiamo Andrea Marcocci, il monumentale protagonista de “Il ferroviere”. E’ un uomo d’altri tempi, con una visione della famiglia in cui c’è un capofamiglia, l’uomo, e figli e moglie devono rispettarlo e seguire le sue regole. E’ un uomo autoritario, con spiccate tendenze all’alcolismo. E’ un uomo manesco. E’ addirittura un crumiro, quando si rende conto che il sindacato l’ha tradito, che è un organismo di potere come tanti altri.
Siamo lontani dall’operaio eroe, siamo più vicini al borghese bieco.
Ma la grandezza di questo personaggio sono i suoi slanci, splendidamente descritti da Germi (che non a caso è anche l’interprete): una devozione straordinaria verso il proprio lavoro, un orgoglio incredibile per la propria professione (ammirabile e auspicabile anche ai giorni nostri), la forza di risollevarsi e chiedere a suo modo perdono per i suoi errori, grazie anche all’affetto incondizionato del figlio più piccolo, interpretato da Edoardo Nevola.
Un personaggio sfaccettato, ben caratterizzato, figlio di uno dei film più compiuti del neorealismo, uno degli ultimi frutti di quella stagione memorabile, una pietra miliare nel cinema italiano.
Da segnalare l’esordio (o quasi) di Sylva Koscina, nella parte della figlia “scostumata” nella visione antica del ferroviere ma forse semplicemente moderna.