Ermanno Olmi è tornato.
Il dovere di testimoniare la sofferenza atroce di quei milioni di soldati, quasi tutti appartenenti agli strati più poveri della nazione, costretti a morire in maniera assolutamente inutile, quei soldati che sono celebrati a parole ma il cui sacrificio viene sempre omesso nelle celebrazioni ufficiali, sepolto sotto uno strato di sterile e trita retorica.
“Mio padre aveva 19 anni quando venne chiamato alle armi. A quell’età l’esaltazione dell’eroicità infiamma menti e cuori soprattutto dei più giovani – ha detto – Scelse l’Arma dei bersaglieri, battaglioni d’assalto e si trovò dentro la carneficina del Carso e del Piave, che segnò la sua giovinezza e il resto della sua vita. Ero bambino quando lui raccontava a me e a mio fratello più grande del dolore della guerra, di quegli istanti terribili in attesa dell’ordine di andare all’assalto e sai che la morte è lì, che ti attende sul bordo della trincea. Ricordava i suoi compagni e più d’una volta l’ho visto piangere”
Il film descrive una notte in trincea, la terribile attesa di ciò che potrebbe accadere, l’inutilità che viene data ad ogni singola vita, la morte del topo, la follia della guerra, in uno scenario bellissimo e onirico.
Olmi non vuole far cadere nell’oblio i soldati trattati come bestie, destinati al macello.
Un film crudo, lento, cupo, potente, con una fotografia bellissima.
Da segnalare le recitazioni, davvero intense e convincenti. Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formighetti, Domenico Benetti, Camillo Grassi, tutti eccellenti, tutti commoventi.