Antonio (Nino Manfredi), Gianni (Vittorio Gassman) e Nicola (Stefano Satta Flores) sono giovani partigiani, immersi nella neve a combattere contro i tedeschi in un’epica battaglia sui monti. La vita, imprevedibile, farà incrociare il loro destino diverse volte, tutti accomunati da un’iniziale ideale e dall’amore per la bellissima Luciana (Stefania Sandrelli).
E’ un film epico questo “C’eravamo tanto amati”, una rappresentazione di 30 anni di storia d’Italia attraverso personaggi che, oltre a raccontare esperienze personali, raffigurano delle tipologie di italiano (e di essere umano più in generale).
Nino Manfredi interpreta l’unico personaggio positivo della storia, l’unico che mantiene con coerenza i suoi ideali di uomo di sinistra, senza vendersi o nascondersi dietro i libri, vive la sua vita con onestà e forza e, alla fine della vicenda, appare essere l’unico soddisfatto, dopo aver ottenuto l’amore della sua vita e una famiglia. Stefano Satta Flores – attore che non conoscevo, molto bravo – è l’intellettuale, fallito e non in grado di vivere e concretizzare quanto studiato, pensato, riflettuto : abbandona la moglie e il figlio, in maniera vigliacca, e perde l’unica occasione di riscatto, il quiz di Mike Bongiorno, sia per la troppa superbia che per la cronica incapacità di stringere le fila e fare quello che serve al momento opportuno.
Il Gianni di Gassman è invece il personaggio peggiore, sotto tutti i punti di vista. Parte da idealista e si ritrova a essere più delinquente dell’odiato suocero interpretato da un superbo Aldo Fabrizi. Senza una morale, tranne quella del denaro, approfitta della situazione in cui casualmente capita, rinnegando il periodo da partigiano (con le speranze di un mondo nuovo, più giusto, migliore per tutti) e lavorando, truffando, maramaldeggiando, tutto per migliorare la propria posizione sociale e per ottenere ricchezza e potere.
La moglie di Gianni, interpretata dalla splendida Ralli – me la ricordo ancora più bella ne La vita agra di Lizzani – è la rappresentazione della totale ignoranza italiana, quasi analfabeta, poco sicura di sè, figlia di papà. Avrà un’evoluzione mistica ben poco convincente, tutto per destare l’attenzione del freddo e cinico marito.
Ma forse il personaggio più emblematico è il palazzinaro Aldo Fabrizi, volgare fascista, marchese parvenu, tipico esemplare di quel mondo dell’edilizia che ha rovinato gran parte del Paese. Non a caso, nonostante l’età già avanzata ad inizio del film, è ancora vivo e vegeto accanto a Gassman alla fine della vicenda. “Non moro, non moro” dice beffardamente al genero, forse rappresenta quella classe dirigente che impedisce ogni cambiamento all’Italia, che non muore mai, e che trova facile sponda in quegli idealisti pronto a vendersi senza colpo ferire.
Un romanzo popolare, un racconto ambizioso della delusione, delle speranze tradite, della generazione che ha fallito e non ha cambiato l’Italia, nonostante la guerra, il coraggio, il mettere a rischio la propria vita. Una vera pagina d’oro del cinema italiano, con grandi interpreti, un regista audace (interessanti anche le scelte tecniche, il passaggio dal bianco e nero al colore, i monologhi “teatrali”, i camei di Fellini, Mastroianni, De Sica) e una sceneggiatura davvero ben scritta.
Un cinema che non siamo più in grado di fare o, forse, è soltanto passato il periodo di quel modo di raccontare, di quell’Italia da raccontare…